Mio fratello è disabile e io sono un sibling- Le difficoltà dei fratelli/sorelle di persone diversamente abili

Che diritto ho io di progettarmi un futuro quando mio fratello non l’avrà? Cosa succederà quando non ci saranno più mamma e papà a pensare a lui? È mio dovere prendermi cura di lui per tutta la vita? – Questi sono alcuni degli interrogativi che si pongono fratelli e sorelle di persone disabili.

È ormai consolidato nella terminologia anglo-americana, l’utilizzo del sostantivo inglese sibling per definire i fratelli indipendentemente dal loro sesso. In campo medico il sostantivo assume un’accezione più specifica: viene infatti utilizzato per distinguere gli individui con sviluppo tipico dai loro fratelli con disabilità e patologie gravi o croniche.

La relazione tra fratelli è unica e generalmente di lunga durata. Solitamente i fratelli condividono gran parte delle loro esistenze e si supportano a vicenda (Ewertzon M. et al., 2012); se dunque è vero che i siblings sono co-protagonisti della vita del fratello malato, risulta indispensabile che anche i siblings debbano essere inclusi nel percorso assistenziale e sostenuti nel corso della vita.

La disabilità infatti è una condizione che non interessa solo la persona che ne è colpita ma investe senza risparmiare tutte le persone che intorno a questa persona vivono. Un elemento al quale spesso non si presta la dovuta attenzione è il ruolo di una figura talvolta in ombra, quella del fratello o sorella della persona disabile. L’impatto sulla crescita del fratello o sorella del bambino disabile non va sottovalutato.

I siblings possono subire ripercussioni psicologiche di cui spesso gli stessi genitori, presi dalla cura del fratello più bisognoso, non si rendono conto o sottovalutano. Si tratta di situazioni che, se non vengono affrontate in maniera adeguata, possono in alcuni casi dare origine a disagi psicologici, difficoltà di adattamento da parte dei fratelli, fino a sviluppare anche disturbi d’ansia e depressione.

siblings non sono destinati necessariamente ad un destino di disagio e sofferenza, ma possono essere aiutati a valorizzare appieno l’esperienza che vivono e diventare persone sensibili e resilienti come pochi altri coetanei. Per fare questo spesso basta poco: cogliere eventuali specifici segnali di disagio evolutivo e mettere in pratica alcuni accorgimenti educativi.

Sibling: una condizione particolare

La particolarità della condizione di sibling è costituita dal fatto che la sua crescita e lo sviluppo dell’identità si compiono confrontandosi continuamente con la presenza di un fratello o una sorella disabile e con genitori che si trovano a gestire un trauma.

La spesso ricorrente invisibilità delle difficoltà dei siblings ci sollecita ad andare oltre le apparenze di “eccessiva” normalità, allenandoci a cogliere preventivamente alcuni segnali di disagio. Le scarse amicizie, una grande timidezza possono ad esempio essere segnali di chiusura relazionale. Al contrario l’insorgere dei comportamenti provocatori potrebbe indicare la messa in atto di un richiamo di attenzione e l’espressione indiretta di emozioni forti e contrastanti. Altri segnali sono ancora più difficili da notare per via della loro desiderabilità sociale: il sibling “bravo bambino” verrà molto rinforzato nel suo iper-adattamento ed anche il sibling “perfezionista” con un ottimo profitto scolastico e sportivo sarà incoraggiato a mantenere quei livelli di performance. Alcuni siblings scelgono poi canali più primitivi di comunicazione ricorrendo a veri e propri sintomi fisici, apparentemente inspiegabili, come disturbi del sonno, dolori di stomaco, frequenti mal di testa, enuresi, sintomi d’ansia.

Le difficoltà scolastiche che invece a volte ci sono e che apparentemente possono derivare da una mancanza di motivazione, sono spesso dovute al senso di colpa del sibling, “colpevole” di volere superare in abilità e conoscenza il fratello disabile.

Prestare attenzione ad alcuni segnali dei sibling e porci domande sulla loro situazione, non significa cercare a tutti i costi il risvolto patologico di alcuni passaggi anche fisiologici della crescita di un bambino, ma si tratta di monitorare una condizione di crescita delicata e cercare di fare prevenzione attraverso il mantenimento di uno spazio relazionale di ascolto e confronto.


“I miei genitori mi portarono alcune volte da uno psicologo e anche da uno psichiatra. Tutti mi dissero che non avevo niente. Uno dei dottori mi diede del Valium per aiutarmi a dormire. Nessuno pensò mai di esplorare la mia situazione familiare (Strohm, 2002).”

La sorella di Max ha dieci anni quando incontra un counsellor scolastico. Ha imparato a nascondere i suoi cattivi sentimenti riguardo Max. Sua mamma non desidera ascoltarli. La sorella di Max a volte ha provato repulsione per i suoi scatti, per la sua saliva. Ha nascosto il fatto di lavarsi le mani ansiosamente ogni volta che toccava i suoi germi. Si era sentita in colpa per la propria gelosia nei suoi confronti, perché avrebbe dovuto sentirsi gelosa? Perché doveva desiderare un disagio così strano, una malattia così strana? E poi aveva desiderato la morte di Max, il giorno successivo ad un viaggio di emergenza d’urgenza all’ospedale in cui “forse avrebbe potuto morire”. Come poteva trovare sollievo da questi pensieri ansiosi? Chi mai avrebbe potuto pensare che lei fosse una brava bambina? La sorella di Max nascondeva ed evitava ansiosamente la parte “cattiva” di se stessa. (Dondi A, 2008)”

Per molti siblings può essere difficile riuscire ad esprimere i sentimenti negativi che provano nei confronti del proprio fratello disabile. Una maniera comune di far fronte ad un’emozione come la rabbia può essere quella di esprimerla diventando disobbediente o facendo i capricci, cosa che può includere un aumento delle manifestazioni aggressive nei confronti dei fratelli o delle sorelle. Nelle famiglie con più di due bambini che sono relativamente vicini di età, uno di loro può anche spostare la propria rabbia nei confronti degli altri fratelli non disabili.

In alcune famiglie, tali emotività sono completamente proibite e risultano accettabili solo commenti positivi sul bambino. Come conseguenza, i siblings potrebbero interpretare i propri sentimenti di rabbia e risentimento come la prova che sono cattivi. Coloro che si sentono arrabbiati nei confronti dei loro fratelli disabili, possono così provare profonda vergogna o sensi di colpa.

Le espressioni inibite di rancore possono condurre i siblings all’introiezione di sentimenti negativi, che determinano l’evitamento della fonte della rabbia (il fratello/sorella disabile) e in alcuni casi l’insorgere di quadri depressivi mascherati.

Molti siblings tentano di proteggere anche i genitori dai propri sentimenti negativi. Alcuni pensano che le espressioni di rabbia e frustrazione riguardo alle loro esperienze possano essere ingiuste, viste le difficoltà che i loro genitori affrontano nella vita di tutti i giorni. Esprimere queste emozioni potrebbe inoltre mettere a rischio l’immagine che cercano di presentare ai genitori, quella di bambini felici ed autonomi; in questo caso è presente una spinta ad essere perfetti, sempre disponibili, senza apparenti lati oscuri.

Sibling: le principali difficoltà

Le problematiche emerse nei siblings maggiormente riscontrate in letteratura sono suddivisibili nei seguenti gruppi principali: somatizzazioni, emozioni/stati d’animo, comportamenti problematici, problemi psicologici.

  • Somatizzazioni: la somatizzazione nella maggior parte dei casi, si presenta con sintomi tipici quali mal di testa, mal di stomaco, enuresi e problemi alimentari.
  • Emozioni/stati d’animo: nella maggior parte degli studi lo stress è la reazione emotiva maggiormente rappresentata. Può essere causato da numerosi fattori come l’alto livello di stress percepito dai genitori e che successivamente si riversa sul sibling e la concomitante mancanza di rete sociale; da uno stato di povertà economica della famiglia (Kilmer et al., 2010), dall’incertezza della situazione familiare. Lane e Mason affermano come il sibling si senta colpevole principalmente per tre motivi: l’aver fatto qualcosa di male, il fatto di essere lui stesso il bambino sano e anche per tutto ciò che prova nei confronti del fratello malato e della famiglia in generale (Lane e Mason, 2014).

Il senso di colpa sarebbe scatenato dalla mancanza o non completezza delle informazioni date al sibling dalla famiglia (O’Shea et al., 2012). In molte occasioni l’intento protettivo dei genitori di ridurre l’impatto della disabilità sulla vita dei figli sani (“meno ne sanno e meglio è”) li porta a tenerli all’oscuro delle caratteristiche della disabilità dei fratelli; così facendo i siblings arrivano spesso a riempire le proprie lacune di informazioni con il bagaglio a propria disposizione, spesso non sufficiente, che gli consente comunque di compensare il bisogno di fornire un senso alla realtà che lo circonda.

Una ragazzina si sentiva responsabile del fatto che il fratello aveva avuto il suo primo attacco epilettico. Lui poco prima di stare male aveva giocato con il cappellino di lei sotto il tavolo da pranzo e lei pensava che era stato quello a causare l’attacco. Da quel momento non gli aveva più permesso di giocare con qualcosa di suo (Strohm, 2006).

Risulta quindi fondamentale dare spiegazioni semplici e vere riguardanti la disabilità o la malattia, utilizzando un linguaggio che sia appropriato all’età. Fornire informazioni corrette e comprensibili ai siblings significa riconoscere e valorizzare la loro competenza nell’ utilizzo dell’esame di realtà e di mantenere un locus of control bilanciato (Powell, 1993). Ad esempio, un sibling potrà essere più a proprio agio nel suo contesto sociale avendo a disposizione alcune risposte realistiche alle domande più frequenti e potenzialmente imbarazzanti che gli vengono rivolte dai coetanei sulla disabilità del fratello o sorella. Secondo Beaulieu (2012) il senso di colpa emerge invece dalla gelosia provata nei confronti del fratello per le attenzioni ricevute dalla famiglia e più in generale dalla società.

Una corretta informazione sui pensieri e sui vissuti ricorrenti dei siblings è il punto di partenza per qualsiasi strategia preventiva ed educativa in favore di chi, spesso, viene fisiologicamente perso di vista dai genitori durante il loro difficile compito di crescere un bambino disabile.

  • Comportamenti problematici: Giallo et al. (2014) evidenziano un elevato tasso di problematiche relazionali evidenziate dalla difficoltà con i propri pari. A ciò si aggiungono problematiche comportamentali quali problemi di condotta e comportamenti oppositivi.
  • Problemi psicologici: tra i sintomi internalizzanti troviamo ansia e depressione; la forte presenza di ansia riguarda secondo Moyson e Roeyers (2012) l’incapacità di capire il fratello e le sue necessità.

Come affermano Patterson et al., (2011) c’è una forte correlazione tra necessità non soddisfatte e depressione; infatti i siblings ai quali non venivano riconosciute le proprie necessità sviluppavano livello di depressione molto elevati. Possono essere inoltre presenti numerose difficoltà scolastiche e peggioramento del rendimento dato dal cambiamento della routine familiare che porta quindi ad un deterioramento delle performance scolastiche e sociali (Bowman et al., 2014). Aspetti di tipo psicologico comprendono anche problematiche di adattamento, ritardo nello sviluppo sociale, sindrome da iperattività/disattenzione e soppressione delle proprie necessità per far fronte alle esigenze del fratello malato. I bambini che vengono parzialmente privati di uno dei genitori, per questioni riguardanti il fratello malato, hanno una ridotta autostima: questo perché il genitore disponibile non è sempre capace di fornire un ambiente propositivo tale da non fare in modo che il sibling incorra in sentimenti di impotenza e incompetenza (Vermaes et al., 2012).

Sibling: tipologie di sostegno e interventi

Non è possibile quantificare a priori il sostegno necessario ad una famiglia nel processo di comprensione della posizione del fratello del figlio disabile: a volte non c’è bisogno di alcun intervento, in altri casi più seri è necessario counseling o un intervento di psicoterapia. Il ruolo dei genitori rimane centrale e complementare a questi interventi. Esistono tuttavia diverse possibilità di attività preventive dedicate ai siblings. Di solito viene privilegiato un approccio di gruppo che mescola attività di tipo ludico ricreativo con momenti di riflessione e condivisione di esperienze. Questo tipo di gruppi si rivolge sopratutto ai siblings tra gli 8 e i 13 anni, periodo in cui affrontano le sfide più difficili; esistono poi gruppi dedicati ai siblings adolescenti e a quelli per gli adulti che si costituiscono in gruppi di auto aiuto senza bisogno di professionisti od esperti che facciano da conduttori.

Beaulieu (2012), Lane e Mason (2014) ed Hancock (2011) nei loro studi concordano che l’approccio debba essere quello del “Family-centered care” tenendo conto quindi della famiglia ma allo stesso tempo dei suoi membri, distintamente l’uno dall’altro.

Il sostegno alla famiglia in caso di nascita di un figlio disabile richiede il concorso di una rete di soggetti che collaborano insieme. Tutti possono essere dei validi interlocutori per i genitori, ad esempio nell’individuare segnali di disagio che potrebbero essere visibili in alcuni contesti e non in altri.

Nelle fasi iniziali successive alla diagnosi perinatale l’unica vera forma di sostegno per tutta la famiglia si concretizza, oltre alle cure mediche e riabilitative al bambino disabile, nel sostegno ai genitori ed alla genitorialità. Gli interventi precoci consigliati possono essere: colloqui di consulenza psicologica sia individuali che di coppia, l’introduzione graduale a gruppi di auto aiuto e la partecipazione a serate organizzate da Associazioni di genitori.

Salvo eccezioni, non si è soliti proporre attività preventive ai siblings prima dei 7-8 anni. Di solito si ritiene che un certo grado di attenzione ed il sostegno ai genitori sia sufficiente.

A partire da questa età in poi diventa rilevante costruire attività dedicate in modo specifico ai fratelli; tali attività possono essere di tipo semplicemente ludico e di ritrovo, per arrivare a proposte miste in cui affiancare momenti di gioco ad altri di riflessione e confronto. A volte capita di fare dei colloqui individuali con i siblings, ma nella grande maggioranza dei casi viene privilegiato un approccio di gruppo.

Sibling: interventi possibili

Don Meyer (Meyer, Vadasy, 1994) ha messo a punto un programma, ormai conosciuto in molti paesi, dal nome Sibshop (fusione delle parole sibling e workshop) che è stato studiato per fornire ai siblings momenti di svago, opportunità di incontro con altri siblings, condivisione di esperienze, individuazione attraverso il confronto, di strategie per la gestione di alcune difficoltà tipiche dei fratelli. Questi workshop durano circa mezza giornata hanno un conduttore e diversi facilitatori che aiutano la gestione del gruppo e sono dedicati ai siblings di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, periodo in cui i ragazzi hanno competenze sufficienti per stare in gruppo, eseguire compiti e giochi che richiedono discrete capacità di lettura e comprensione, e periodo in cui il confronto con i pari età inizia a sollevare interrogativi e dubbi riguardanti la disabilità del fratello.

Kate Strohm ha pensato invece ad un programma più articolato, rivolto sempre alla fascia di età tra gli 8 e i 12 anni, suddiviso in sei incontri di due ore ciascuno una volta al mese con due conduttori più alcuni facilitatori a seconda del numero dei partecipanti (Strohm, 2005). Gli obiettivi del programma sono quelli di: fornire un’esperienza divertente; fornire ai fratelli l’opportunità di incontrare altri fratelli e di imparare che non sono soli nella loro esperienza; aiutare i fratelli a sviluppare una migliore comprensione dei bisogni speciali dei loro fratelli/sorelle, così come di altri bisogni speciali; rafforzare la comunicazione tra i fratelli e le loro famiglie e i loro amici; aiutare i fratelli a sentire che sono speciali e valorizzati non solo nelle loro famiglie ma anche nella comunità; assistere i fratelli nell’identificare i sentimenti positivi e quelli negativi di essere un fratello di qualcuno che ha una disabilità; procurare un’ opportunità per i fratelli di condividere i propri sentimenti con altri che possono capire, in un contesto protetto; assistere i fratelli nello sviluppo di abilità attive di adattamento per gestire le sfide che possono dovere affrontare come ad esempio la derisione, sentirsi ignorati o imbarazzati. (Strohm, 2005)

Tali occasioni rimangono comunque importanti anche in altre fasce di età, come l’adolescenza o l’età adulta. In questi casi si tratta più spesso di gruppi di auto aiuto; per i più grandi che hanno dimestichezza con il computer e internet sono attive anche alcune mailing list molto utili per entrare in contatto con altri siblings.

La tecnica che negli ultimi anni è stata fortemente implementata ed ha ricevuto esiti positivi soprattutto a livello statunitense e nel Nord Europa è quella dei “Camp”; alcuni sono basati sul divertimento terapeutico altri su programmi di tipo psico-educazionale, su principi di terapie cognitive o di promozione della salute (Beaulieu, 2012). L’esperienza del Camp ha portato ad outcomes positivi nel breve e lungo termine riguardo ai sintomi fisici, alla percezione di sé e al supporto sociale oltre che al benessere emozionale e all’autostima (Hancock, 2011).

Disturbo da Tic

Schermata 2018-01-12 alle 16.51.03disturbi da tic costituiscono uno dei disturbi neuro-psichiatrici più frequenti in età evolutiva, si stima infatti che oltre il 10% della popolazione manifesti dei tic
nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza (Verdellen C. et al., 2016).

Il tic è un comportamento convulso e involontario ed è considerato un’anomalia che rientra nei disordini del movimento. Con la denominazione tic si intende tutti quei movimenti stereotipati, a-finalistici, che l’individuo compie senza averne il controllo; i tic possono essere transitori (Disturbo transitorio da Tic) oppure cronici (Disturbo persistente da Tic motori o vocali); si possono manifestare in diversi modi e coinvolgere uno o più elementi corporei: gli occhi, la voce o addirittura il comportamento.

tic motori comprendono per esempio smorfie del viso, movimenti del collo, colpi di tosse, ammiccamenti; fanno parte di questa tipologia anche i tic vocali (emissioni di suoni non voluti) che includono per esempio il raschiarsi la gola e lo sbuffare. Quelli appena elencati sono considerati tic motori e vocali semplici perché coinvolgono solo alcuni elementi corporei e sono costituiti da movimenti brevi.

tic motori possono essere anche complessi quando coinvolgono più elementi corporei e sono costituiti da sequenze di movimenti; ne sono un esempio il battere i piedi, effettuare movimenti mimici, saltare, toccare, odorare un oggetto. Anche i tic vocali possono essere complessi o definiti anche tic comportamentali; ne sono un esempio l’ecolalia (la ripetizione come un’eco di frasi parole o suoni sentiti per ultimi) e la coprolalia (comportamento compulsivo patologico che provoca la necessità esplosiva di pronunciare parole o frasi dal contenuto osceno e/o volgare). Oltre a queste principali tipologie esistono anche i tic distonici (movimenti coordinati consecutivi con un fine inesistente ma presunto), i tic sensitivi (scatenati da una stimolazione esterna, frequentemente riscontrato nelle persone con Sindrome di Tourette) e i tic transitori, riscontrabili più frequentemente in età infantile (DSM-5).

tic persistenti esordiscono in genere tra i 4 e i 7 anni, raggiungono un picco di intensità in pre-adolescenza, per poi attenuarsi e sparire nella maggioranza dei casi in tarda adolescenza o nella prima età adulta (Verdellen C. et al., 2016).

L’eziologia del Disturbo da tic

Alcuni soggetti sembrano essere maggiormente predisposti rispetto ad altri a sviluppare il Disturbo da Tic per via di un’alterazione del gene SLTRK1 nel cromosoma 13; tuttavia non è matematico che a predisposizione genetica segua sempre la manifestazione di un tic nervoso. In altri casi vi possono essere disfunzioni cerebrali e del sistema nervoso centrale che incidono su due neurotrasmettitori: la dopamina e la serotonina, coinvolte nei meccanismi cerebrali di movimento volontario e nella regolazione dell’umore.

Tra le cause di un tic nervoso vi possono anche essere disagi psicologici ossessivo-compulsivi che cercano di contrastare l’ansia verso una situazione determinata oppure ancora vi possono essere implicazioni di carattere neurologico riferite principalmente ai gangli della base (formazioni dell’encefalo che svolgono un importante ruolo nel controllo dei movimenti volontari e non ma anche di alcune funzioni cognitive) (Bear et al., 2007).

tic causati da malattie neurologiche prendono il nome di discinesie (alterazioni di un movimento), queste possono essere una conseguenza di un danno cerebrale alla nascita, di un trauma al capo, dell’uso di farmaci antiemetici oppure di farmaci utilizzati per trattare problemi psichiatrici (Segen J., 2006).

La Sindrome di Tourette

Tra le patologie meglio conosciute caratterizzate da movimenti involontari ed esordio nell’infanzia vi è la Sindrome di Tourette (Disturbo neurologico che prende il nome da George Gilles de la Tourette, il neurologo francese che l’ha descritta per primo nel 1885). Questa Sindrome è caratterizzata da tic facciali, movimenti involontari multipli del corpo, ecolalia e coprolalia; la gravità dei tic può variare da lievi a invalidanti ed il 43% dei pazienti presentano alcune comorbilità come il Disturbo da Deficit d’attenzione e iperattività (ADHD) e il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC); queste condizioni sono spesso secondarie al peggioramento del quadro clinico del paziente ed è fondamentale identificarle e trattarle (Du J.C. et al., 2010).

Le cause della sindrome non sono ancora certe, vi sono fattori genetici e ambientali e si ipotizza esservi un metabolismo anormale della dopamina 4 volte più frequente nel maschio.

I tic di questa Sindrome iniziano durante l’infanzia, l’età più comune di insorgenza è tra i cinque e i sette anni e raggiunge la massima severità intorno ai 10 anni (Leckman J.F. et al., 2006).

In adolescenza i tic si riducono o scompaiono in circa un quarto dei bambini; per quasi la metà di essi i tic si riducono ad una forma lieve, per meno di un quarto di loro invece i tic persistono. Gli adulti invece presentano un peggioramento dei tic rispetto all’età pediatrica in percentuale compresa tra il 5% e il 14% (Du J.C. et al., 2010).

La probabilità di trasmettere il disturbo alla prole è del 50% (Zinner S.H., 2000); solo una piccola percentuale di bambini portatori di geni sviluppano sintomi tanto severi da richiedere cure mediche.

Resta dibattuta l’ipotesi autoimmune che prende il nome di PANDAS (Pediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorders Associated with Streptococcal infections) una sindrome neuropsichiatrica infantile innescata da ripetute infezioni da streptococco non adeguatamente curate che presentano diversi sintomi neuropsichiatrici tra i quali: disturbi del movimento, tic vocali, disturbo ossessivo-compulsivo (pandasitalia.it).

A differenza degli altri disturbi del movimento, i tic di Tourette sono sopprimibili per periodi limitati di tempo e sono spesso preceduti da un impulso premonitore non desiderato di cui i bambini sono meno consapevoli.

Alcuni esempi di impulso premonitore possono essere: la sensazione di avere qualcosa in gola o un disagio localizzato nelle spalle, che portano alla necessità di schiarirsi la gola o di alzare le spalle. Il tic può essere sentito come un modo per alleviare questa tensione o sensazione, simile alla sensazione che si ha dopo essersi grattati per un prurito.

Per via di questi impulsi premonitori i tic della Sindrome di Tourette sono descritti come semi-volontari; le descrizioni pubblicate sui tic identificano i fenomeni sensoriali di Tourette come il sintomo principale della sindrome, anche se esse non sono incluse nei criteri diagnostici (Miguel E.C. et al., 2000).

L’intervento psicoeducativo in aggiunta a quello farmacologico è spesso necessario per aiutare il nucleo familiare e il paziente stesso ad affrontare i sintomi della sindrome.

La prognosi è positiva, solo una minoranza di bambini con la sindrome presentano una serie di gravi sintomi che persistono in età adulta; al momento della diagnosi i ticpotrebbero essere al livello massimo di gravità e spesso migliorano in seguito. Indipendentemente dai sintomi le persone con la sindrome di Tourette hanno una durata di vita normale, la condizione non è degenerativa, il quoziente intellettivo non viene direttamente intaccato dalla sindrome, vi possono essere però difficoltà d’apprendimento (Singer H.S., 2005).

Fattori ambientali nel Disturbo da Tic

Negli ultimi decenni rispetto all’eziologia del Disturbo da Tic sono stati individuati fattori e condizionamenti ambientali come per esempio un’educazione particolarmente repressiva e rigida che possono portare l’individuo a trattenere tutto quello che prova all’interno di sé in una continua sfida di controllo ed a percepire un senso di insicurezza e inadeguatezza (Verdellen C. et al., 2016).

Quando in comorbilità al Disturbo da Tic vi è anche un Disturbo Ossessivo Compulsivo o Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, è fondamentale intervenire anche su questi aspetti con interventi psicologici ed eventualmente farmacologici così da migliorare la qualità della vita del paziente, ridurre l’incidenza del tic e dei danni correlati.

Disturbo da Tic: l’ intervento farmacologico

Per il trattamento farmacologico dei tic semplici e complessi vengono utilizzati generalmente tre categorie di psicofarmaci: le benzodiazepine, gli ansiolitici non benzodiazepinici e i neurolettici, ma in alcuni casi possono essere utilizzati anche gli antidepressivi (Porta M., 1996).

I farmaci più efficaci sono i neurolettici classici come l’aloperidolo ma per i loro effetti collaterali a carico del sistema extrapiramidale vengono spesso preferiti i neurolettici di nuova generazione anch’essi antidopaminergici come il risperidone  o la sulpiride.

Il trattamento farmacologico non “guarisce” i tic ma aiuta la persona a controllarli.

Disturbo da Tic: l intervento psicologico

Disturbi da Tic vengono trattati principalmente utilizzando la tecnica dell’esposizione e della prevenzione della risposta con lo scopo di estinguere i pensieri e i rituali che il soggetto mette in atto per contenere l’ansia e di modificare le credenze disfunzionali e le interpretazioni della persona sulle possibili conseguenze che possono essere scatenate dalle situazioni-problema (Verdellen C. et al., 2016).

Dopo che la persona avrà imparato a conoscere e riconoscere i sintomi del disturbo, ne verrà valutata la frequenza e tipologia anche attraverso questionari auto-valutativi e strumenti standardizzati, verrà poi stabilito un ordine gerarchico delle situazioni che scatenano i sintomi ed i comportamenti disfunzionali. Seguirà poi il trattamento che consiste nell’esporre il paziente ad alcune situazioni ansiogene presentate in maniera crescente sia nel setting terapeutico che nel contesto quotidiano e che lo portano a mettere in atto una serie di rituali. L’obiettivo è quello di portare il paziente ad apprendere che l’ansia gradualmente diminuisce anche senza condotte di evitamento e rituali e che le conseguenze che aveva previsto possono anche non verificarsi; questa ristrutturazione delle interpretazioni delle situazioni-problema e delle conseguenze porta ad una modificazione comportamentale.

Nel caso di pazienti con disturbo da tic in età evolutiva è fondamentale il coinvolgimento dell’intero nucleo familiare con l’obiettivo di favorire la comprensione dei comportamenti del bambino, fornire strategie per la loro gestione e modificazione e porre attenzione sugli atteggiamenti dei componenti familiari in merito al disturbo ed al soggetto stesso. Risulta controproducente sgridare o spazientirsi in seguito alla manifestazione dei tic perché come in un vortice questo aumenta l’ansia e di conseguenza gli stessi tic. Indispensabile risulta anche nel contesto familiare il monitoraggio delle situazioni in cui i tic si manifestano così da poterle prevedere e quando possibile evitare.

Vi sono due principali modelli di terapia comportamentale utilizzati per trattare il Disturbo da Tic: il trattamento HRT (habit reversal therapy) e la tecnica ERP (Exposure and response prevention).

L’Habit Reversal Training, spesso tradotto come addestramento per la regressione delle abitudini disfunzionali, è ad oggi l’intervento considerato più efficace secondo le ricerche internazionali.

Nell’Habit Reversal Training si affronta separatamente ogni tic, prima prendendone coscienza, poi imparando una risposta competitiva che lo previene.

La tecnica ERP: exposure and response prevention utilizzata principalmente nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo ha come target tutti i tic in una volta e prevede il contatto o esposizione graduale o prolungata con lo stimolo o la situazione che generalmente innesca i sintomi e la prevenzione della risposta, ossia l’interruzione dei comportamenti messi in atto dopo il contatto con lo stimolo o la situazione, per un tempo maggiore di quello generalmente tollerato. Sconfiggendo i tic per un significativo periodo di tempo, il bambino può abituarsi alla sgradevole sensazione premonitrice (allarme-tic), che spesso precede un tic e si placa una volta che si manifesta il tic (Verdellen C. et al., 2016).

Una significativa riduzione dei tic è stata osservata sia con l’Exposure and Response Prevention che con l’Habit Reversal Training. Uno studio controllato ha mostrato che non ci sono differenze fra i due metodi (Verdellen et al., 2004). I risultati hanno suggerito che l’Exposure and Response Prevention è più efficace quando sono coinvolti più tic come nella Sindrome di Tourette, quando invece il bambino ha un solo tic o pochi tic diversi, l’ Habit Reversal Training risulta più appropriato. È consigliabile provare l’altro metodo se quello precedentemente utilizzato non ha portato ad una sufficiente riduzione dei tic (Verdellen C. et al., 2016).

Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/06/disturbo-da-tic-eta-evolutiva/

 

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26167424_1609944835755412_9176062970764120593_n-1.jpgSono molte le donne che, durante la gravidanza o nel post-partum, non parlano di quanto stanno male o dei pensieri che possono fare. Alcune donne hanno paura del giudizio altrui oppure si giudicano da sole come pessime madri o ancora la considerano una debolezza o pensano che ci sia qualcosa di terribilmente sbagliato in loro. Alcune di loro temono che rivelando i propri pensieri saranno etichettate come cattive madri.
Ridurre il silenzio e la vergogna che circondano lo stress post-partum è fondamentale perché l’isolamento può acutizzare le emozioni negative ed esporre le donne al rischio di sintomi più duraturi.
Anche se è normale provare ansia nel periodo post-partum, molte neomamme non sanno fino a che punto è normale avere una certa dose di ansia e come riconoscere i segnali di un problema più grande.
Sfatiamo il mito secondo cui tutte le neomamme si sentono benissimo rispetto all’essere madri
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